Non è sufficiente che la vita sia vissuta, è necessario che venga anche narrata. Lo sa bene Gesù che, con infinita delicatezza, consente ai suoi discepoli di raccontare senza freni la loro prima esperienza missionaria. Viviamo continuamente il pericolo di divorare l'esistenza, senza aver imparato a gustarla sul serio. Rischiamo di subire passivamente ciò che accade e non basta scattare delle semplici istantanee per arrestare l'inesorabile scorrere del tempo. La storia che non raccontiamo non esiste, va perduta. Narrare le esperienze e dare un nome alle emozioni consente ai discepoli di ricondurre in unità tutti i frammenti. In questo modo hanno la possibilità di ritrovare se stessi, di ri-conoscersi attraverso il filo della memoria e di imparare un linguaggio nuovo, capace di dire il bene, la speranza, la bellezza, e di mettere a tacere le recriminazioni, la rassegnazione e le lamentele che troppo spesso monopolizzano i nostri discorsi. Gesù fa quello che oggi sembra davvero difficile: si ferma ad ascoltarci e ci offre la possibilità di consegnarci a Lui senza maschere, con il nostro bagaglio di gioie e di speranze, di attese e di paure.
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Mc 6,30-34
In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
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